Autore: Michel Joseph
Editore: Kairos
Antroposofia

La prova del doppio nel rapporto di coppia

L’uomo è il teatro di tutti gli antagonismi dell’universo. All’esterno si affrontano incessantemente ombra e luce, caldo e freddo, vita e morte, pesantezza e lievità – ma l’uomo è il solo essere che possa assumere al suo interno la lotta di tutti questi opposti. E lo può fare proprio perché è composto da tutti questi opposti. Divenire se stesso significa infatti, per lui, creare un dinamismo di libertà, un altro movente del tutto suo tra tutte le sue contraddizioni, un terzo centro che, partendo dal cuore, dalla zona mediana dell’essere, regoli tutti i dualismi. In questo consiste la sua essenziale dignità, una dignità che non è una perfezione immutabile ma una tensione drammatica, una ricerca inquieta e che procede a tentoni dell’armonizzazione dei movimenti estremi. È per questo che, una volta risvegliato, il senso della dignità dell’uomo si applica allo stesso modo tanto al santo come al criminale. Diciamo inoltre che tutta la dignità dell’uomo risiede nel sentimento che egli ha della sua indegnità, perché se egli la percepisce è grazie al contrasto con il sublime che c’è in lui.

I rapporti tra lotta interiore e guerre esterne
Oggi l’uomo deve affrontare in piena coscienza queste lotte interiori, cosa che egli sente sempre più ma anche teme sempre più di dover fare. Il lavoro esoterico che possiamo compiere su noi stessi non ha altro scopo che permetterci di forgiare le armi necessarie a questo compito. Solo ciascun uomo individuale può, nella sua interiorità, accettare di rilevare la sfida ma ha bisogno per questo di un coraggio enorme e tenace; non c’è niente di comodo in tutto ciò!
Tuttavia noi tutti sappiamo come l’interiorità reagisca sull’esterno. La medicina psicosomatica presenta innumerevoli casi in cui una crisi esistenziale non affrontata interiormente diviene la causa di disturbi corporei. Non possiamo quindi pensare che il rifiuto di assumere interiormente i propri problemi reagisca non solo sul fisico ma anche sugli avvenimenti esterni? In questo caso, come dice Rudolf Steiner, l’uomo respingerebbe all’esterno le lotte che non vuole combattere nella propria anima:

“Che gli uomini non vogliano affrontare questa lotta interiore, che la fuggano ancora, che non la vogliano, è un fenomeno del tempo. E poiché non la vogliono interiormente, essa si proietta attualmente all’esterno. Ne ho accennato nei miei misteri drammatici, dove si può vedere che le lotte esterne che si svolgono fra gli uomini sono l’espressione di una lotta interiore … Si accenna al fatto che tutte le lotte esteriori che avvengono oggi sono lotte espulse dall’interiorità” (2).

L’epoca che attraversiamo è segnata da una doppia indicazione:
– all’esterno le guerre diventano sempre più sanguinose, le minacce che mettono in pericolo la Terra intera s’accumulano da tutte le parti, la barbarie sorge dappertutto, negli stadi, nelle città, o in seno a gruppi terroristici organizzati;

– all’interno gli individui si sentono impotenti di fronte alla grande macchina anonima e fredda del potere ed evadono stordendosi con immagini meccaniche, con piaceri superficiali, con alcool o droghe, mentre dovrebbero prima di tutto guardare dentro se stessi.

Sappiamo bene come l’uomo sia per l’uomo la bestia più feroce, come noi tutti siamo congiuntamente colpevoli delle atrocità naziste, della fame nel mondo, della quotidiana violazione dei diritti umani fondamentali. Ciascuno di noi sa, nelle profondità di se stesso, di contribuire con le sue abitudini di vita alla distruzione del pianeta. Orbene, noi continuiamo a cercare all’esterno dei responsabili, dei dirigenti che siano causa di tutti i mali. Noi cerchiamo dei responsabili e ci scontriamo contro la massa impersonale, contro la struttura senza anima, contro dirigenti il cui solo criterio morale è quello di piegarsi ai risultati dei sondaggi di opinione. Dov’è l’individualità, dov’è l’Io, sola istanza di responsabilità?
È in ciascuno di noi che va cercato come fonte dell’inziativa e della coscienza umana, ma noi fuggiamo appunto quest’incontro.

Questo segno dei tempi ci indica quel che è necessario:
“Deve avvenire che gli uomini facciano entrare nell’intimo ciò che credono di dover superare lottando oggi in campo esterno. Un campo di battaglia nell’intimo delle anime umane sarà il rimedio per ciò che ha apportato tanta rovina agli uomini. Non prima dell’ingresso nell’interiorità umana di tale campo di battaglia potrà spegnersi ciò che è avvenuto esteriormente in modo così catastrofico fra gli uomini; l’esteriorità infatti non è se non ciò che essi proiettano verso l’esterno dato che non lo vogliono tenere nella loro interiorità. Tutto il resto è solo apparenza, ma questa è la realtà” (3).

E’ una verità davvero sconvolgente: il mondo esterno, la società, la storia degli uomini si presentano davanti a ciascuno di noi come un terribile enigma. Questa situazione esterna del mondo è oggi così inquietante e catastrofica che ognuno è portato ad aspirare dal profondo di se stesso a che si faccia qualcosa prima che sia troppo tardi. E l’enigma si leva allora, in tutta la sua innegabile difficoltà: che cosa c’è di comune tra me e questi avvenimenti? Come potrei, da solo, spostare queste montagne? Purtuttavia la risposta è in ciascuno di noi, perché è l’uomo stesso a costituire la risposta alla sfinge (4). Che cosa c’è di comune tra me e quel che è fuori di me? Tutto, cioè la mia umanità. Come spostare queste montagne? Essendo pienamente umano, cioè essendo me stesso.

Il cammino di sviluppo spirituale
Cerchiamo ora di approfondire quanto detto. Contrariamente all’antica via di sviluppo mistico, il cammino moderno non cerca di allontanarci dalle realtà quotidiane. Queste costituiscono infatti la sfera di azione alla quale ciascuno di noi può accedere. Le grandi cause possono certamente infiammarci, possiamo perfino occupare una posizione sociale che ci permette di partecipare a decisioni o orientamenti determinanti per popoli interi, ma non è là la cosa importante in grado di sollevare le montagne. Quel che invece è essenziale è che noi possiamo partire da ciò che dipende unicamente da noi, cioè da tutto ciò che esclude conformismo a una norma “ordinaria” e a qualsiasi manipolazione applicata agli altri, qualsiasi intervento sul loro libero arbitrio.
Bisogna qui considerare prima di tutto che ogni individuo è coinvolto in molte sfere nelle quali non può agire validamente se non restando bene al centro, in quanto Io. La sfera della vita privata che comprende l’eventuale partner e la famiglia è una zona in cui è massimo il margine di iniziativa; questo margine diminuisce nella sfera dei rapporti più vicini, diminuisce ancora in quelli più lontani, nella sfera della vita professionale, delle istituzioni pubbliche, e così via. Ora, l’illusione in cui cadono molti dei nostri contemporanei è quella di voler privilegiare le sfere più vaste ed esterne, di impegnarsi per esempio totalmente nella professione o in una causa di interesse generale, e di trascurare le sfere più vicine. Molto spesso l’impegno politico o il carrierismo non sono altro che comodi mezzi per fuggire da se stessi e per stordirsi. Non si tratta qui di voler giudicare il merito o l’utilità intrinseci di queste scelte, ma di rispondere concretamente alla domanda posta all’inizio: come può ciascuno, individualmente, contribuire a portare il fardello generale della Terra e dell’umanità attuali?
Ogni cammino occulto si appoggia su tre elementi necessari di base. Si tratta della devozione nei confronti della verità, del coltivare la vita interiore e della pratica della meditazione che permettono di discernere tra l’essenziale e l’accessorio (5). Ciascuna di queste tre attività costituisce il complemento apportato dall’Io a quel che ci viene dato istintivamente nella prima infanzia.
I primi tre anni dell’esistenza sfociano sul risveglio della coscienza di essere un Io, che corona l’acquisizione delle tre facoltà che caratterizzano l’essere umano: la stazione eretta e il camminare, la parola articolata e il pensiero.
La devozione al vero è un risveglio cosciente a ciò che ci oltrepassa, lo spirito o il divino. Essa ci conferisce una nuova verticalità e, in asse verso la volontà dell’universo, risponde all’apprendimento del camminare attraverso cui siamo passati da piccoli. La pratica della vita interiore consiste nel far rivivere a posteriori la lingua segreta degli esseri e degli oggetti. Essa si situa nell’orizzontalità, nell’apertura al mondo, e prolunga attivamente il tirocinio istintivo della parola. Quanto alla meditazione o al coltivare la calma interiore, essa consiste nel contemplare le forme del pensiero, a considerare, per esempio, la propria esistenza con l’obiettività, il distacco e l’acuta osservazione di chi passeggia contemplando un paesaggio dall’alto di una montagna. Ne deriva l’acquisizione di un senso morale della prospettiva, la capacità di distinguere l’essenziale dall’accessorio. Qui si tratta prima di tutto di ciò che l’Io apporta come complemento ai nostri atti. È la metamorfosi dell’apprendimento del pensiero.
Tutto ciò che la natura ci ha dato quando abbiamo imparato a camminare, a parlare e a pensare lo dobbiamo riconquistare su un piano superiore. Nello sviluppo spirituale ripartiamo quindi dalle attività che abbiamo esercitato del tutto inconsciamente all’inizio della vita per diventare uomini, ma questa volta prolunghiamo tali attività su di un piano perfettamente cosciente e libero.
In un certo senso, tutte le regole di vita che l’esercizio esoterico richiede in seguito possono ricollegarsi a questi tre elementi base (6).
È da questi che partiremo ora per approfondire quel che significa praticamente affrontare la lotta in se stessi. E a questo scopo considereremo essenzialmente la sfera di iniziativa e di conoscenza più vicina all’individuo, quella dell’”alter ego”, dell’”altro”. I problemi di coppia sono appunto uno degli elementi caratteristici della nostra epoca. Quel che un tempo era sacro e costituiva il cemento morale di tutta la società è ora in crisi generalizzata e in piena decomposizione. È dunque un sintomo fondamentale della nostra civiltà, un segno dei tempi che dovrebbe farci capire meglio la lotta decisiva attuale.
Descriveremo a titolo d’esempio alcune esperienze della vita quotidiana di una coppia e come le tre condizioni fondamentali di ogni cammino esoterico possano applicarsi ad esse.

Il problema della comunicazione
Il problema cruciale che si collega a questo genere di osservazioni è quello della comunicazione. Tutti i conflitti – e non sono rari! – che sorgono all’interno della coppia derivano dalla non comunicazione. Il processo totale di comunicazione si realizza veramente solo quando l’Io dell’uno si rivolge all’Io dell’altro. Qualsiasi relazione che non si appoggi sull’Io, cioè sul centro dell’anima umana, laddove vuole, sente e pensa un essere reale, non è che dissimulazione, menzogna, falsa apparenza, negligenza, abuso. Poniamoci sinceramente la domanda: quante volte in una giornata siamo realmente noi stessi? In quali occasioni possiamo dire veramente: ‘Là ero completamente dietro la mia azione, la mia parola, il mio pensiero’? In ciascuno di noi non risiedono solamente il vero Io e l’io inferiore, perché la nostra personalità apparente è essa stessa composta da numerosissimi personaggi che vogliono, ognuno, condurre un’esistenza propria. E il vero Io è in noi il solo essere che sia capace di affrontare coscientemente tutti questi piccoli esseri.
Ora è già molto difficile per un individuo assumere le proprie contraddizoni; per cui, quando due persone vivono insieme, le difficoltà, invece di sommarsi, si moltiplicano.
È vero, ma c’è un secondo aspetto, essenziale, ed è che quando due persone percorrono insieme un certo cammino anche i passi avanti si moltiplicano invece di sommarsi. Tolstoj, che conosceva profondamente l’enigma della condizione umana, ha appunto descritto questi due casi estremi. Nella sua famosa “Sonata a Kreutzer” abbiamo il dramma dell’incomunicabilità, della gelosia in una coppia, che tutto destinava ad un’esistenza facile e brillante, che la porta invece alla distruzione. Il romanzo “Resurrezione” mette viceversa in scena la via ascendente attraverso la quale un uomo e una donna uniscono quel che hanno di migliore per il bene degli altri, cosa che permette loro di trasformare le vecchie colpe, di metamorfosare la loro depravazione passata. La prima di queste due opere ci fornisce qualche esempio per meglio illustrare quanto abbiamo detto.

Tolstoj descrive dunque il primo malinteso tra i suoi personaggi a tre o quattro giorni dal matrimonio:
“La trovai malinconica, cominciai a chiederle come mai, cominciai ad abbracciarla, che era tutto quello che, secondo me, poteva desiderare, e lei allontanò il mio braccio e si mise a piangere. Perché piangesse non sapeva dirmelo. Si sentiva triste, a disagio” (7).

Questa è la prima fase, quella dell’apatia, dell’abbattimento. C’è qualcosa che rende l’umore malinconico senza che si possa dire che cosa. Il marito pensa ingenuamente che un gesto di tenerezza sia sufficiente a ristabilire l’armonia, ma è ciò che accentua il malessere di sua moglie. Lui non capisce, perché non c’è niente di razionale in queste reazioni; si interroga, fa ogni tipo di domanda.

“Poiché continuavo a farle domande, lei disse qualcosa, accennando che si sentiva triste senza la madre. Mi parve che non fosse vero. Cominciai a dirle parole di incoraggiamento senza parlare della madre. Non avevo capito che semplicemente passava un momento spiacevole e che la madre era solo un pretesto. Ma lei si sentì subito offesa dal fatto che avessi taciuto della madre, come se non credessi a ciò che m’aveva detto. Mi disse che vedeva che non l’amavo” (8).

In questa seconda fase, dopo la percezione dello stato di malessere, dell’incomunicabilità a livello dei sentimenti, la “macchina del ragionamento” si mette in moto in ciascuno dei due personaggi. La situazione di partenza è già persa di vista, il problema si sposta e si trova amplificato e collocato su un piano in cui non si trovava all’inizio. I due partner si trovano a girare in tondo (nella loro testa) e a scambiarsi ogni tipo di argomentazione.

“Io l’accusai di essere capricciosa, e ad un tratto il viso le si mutò completamente, invece della tristezza vi si espresse l’irritazione, e con le parole più velenose prese a rimproverarmi egoismo e crudeltà. Io la guardai. Il suo viso esprimeva la freddezza e l’ostilità più assolute, vicine all’odio. Ricordo come mi spaventai rendendomene conto. Come?, pensavo. L’amore è l’unione delle anime e invece eccoci qua! Non è possibile, non è lei. Cercai di calmarla, ma cozzai contro un muro così insormontabile di ostilità fredda e velenosa che in un batter d’occhio l’irritazione si impossessò di me e noi riversammo l’uno sull’altra una valanga di cose spiacevoli” (9).

In questa terza fase, il freddo interiore invade l’anima dei due protagonisti, un freddo provocato dal crescente sentimento di isolamento e di impotenza e accentuato dagli sforzi frenetici dell’intelletto per uscire da questo circolo infernale. L’incomunicabilità è al massimo e in questo elemento di ghiaccio sorgono gli orrendi fiori dell’odio, della paura e della menzogna. Nessuno dei due personaggi è in grado di riconoscere l’altro. È questo il momento in cui, a sua volta, si scatena il polo delle forze della volontà. Si passa bruscamente dal freddo sarcastico dell’intelletto al morso bruciante di ciò che sale dalle membra sotto forma di collera cieca, di impuslo distruttore.

La triplice natura umana si riflette nelle tre tappe della crisi
Le tre fasi che abbiamo appena descritto corrispondono alle tre regioni funzionali dell’essere umano:- il sistema pensante e neuro-sensoriale della testa;
– il sistema senziente e ritmico (circolazione e respirazione) del torace;
– il sistema volente e metabolico (movimento, digestione, riproduzione) delle membra.

Nel sistema ritmico si incontrano gli altri due, relativamente antagonisti (la testa analizza, mentre il metabolismo sintetizza). Per cui il nostro stato di coscienza abituale si mette in relazione prima di tutto con quella regione della vita affettiva, del pensiero non ancora veramente formulato e della volontà indecisa. Noi viviamo molte ore della nostra vita quotidiana in uno stato più vicino al sogno ad occhi aperti che non alla veglia propriamente detta. È come se il nostro pensiero seguisse il suo proprio corso, così come la nostra volontà si applica automaticamente ai mille compiti della giornata. In tutto questo tempo la nostra vita interiore è agitata da ogni sorta di onde in cui si incontrano le impressioni esterne, le associazioni di idee, le rappresentazioni e le immagini-ricordo.
In quale misura l’Io è presente coscientemente in tutto questo processo? Non può che essere attivo laddove siamo più coscienti, cioè nell’attività pensante. Generalmente sono le situazioni esterne che mobilitano questa parte più vigile di noi e l’Io vive allora attivamente in noi nella misura in cui collega, in un tutto armonioso, pensiero, sentimento e volontà. Ma può anche accadere che restiamo bloccati nell’intelletto, che è tanto più sveglio quanto più si isola dal resto dell’organismo. Ne risulta una coscienza molto precisa delle cose, ma che si esprime come coscienza dolorosa di essere tagliati fuori dal mondo.
Il pensiero può quindi essere di due nature, a seconda che ci isoli o ci colleghi. Nel primo caso non è che un pensiero riflesso, non riflette che una parte del nostro essere, che una delle multiple sfaccettature del nostro io apparente. Al contrario, nel secondo caso, esso è attività collegante, porta in sé qualcosa della volontà e del sentimento, ed è per quella via che il vero Io vive in esso. Questo pensiero collegante e impregnato di Io noi lo sperimentiamo tutte le volte che abbiamo coscienza di essere autenticamente liberi. La libertà di cui si parla in questo caso è molto simile all’elemento in cui vive l’artista che crea. È agire a partire dalle proprie intuizioni morali, non per soddisfare un qualsivoglia impulso, né per raggiungere un determinato obiettivo, ma per l’amore dell’azione, della cosa in se stessa. Questa libertà, lungi dal limitare quella degli altri, la esalta, tanto che il criterio esterno di un atto libero è la constatazione che esso libera allo stesso tempo gli altri (10).
I due personaggi della “Sonata a Kreutzer” si ammalano a vicenda. Li vediamo passare successivamente per le tre fasi corrispondenti alle tre regioni della vita interiore: dallo stato di dormiveglia che caratterizza la coscienza ordinaria, limitata alla vita dei sentimenti – è là che viene avvertito l’indefinibile malessere -, allo stato di veglia del pensiero intellettuale – laddove si isolano completamente l’uno dall’altro – e infine ad uno stato di coscienza più sordo, dove la violenza monta dalle oscure profondità, dove l’azione o la parola precedono la coscienza.

Il doppio e la sua manifestazione
Se cerchiamo di rappresentarci l’immagine dell’uomo che emerge da questo processo, quel che osserviamo è una regione intermedia vuota – l’Io non vi è presente – e le due “estremità” dell’anima “piene”, ma quel che le riempie è altro dall’Io. Ora questo corrisponde esattamente a un dato di psicologia occulta. Nel mondo spirituale il vuoto non esiste: quando l’Io non riempie l’organismo che gli corrisponde, sono altri esseri che se ne impossessano. L’essere umano attuale non rempie mai il suo organismo – salvo che, grazie ad uno sviluppo interiore, egli si alleni ad essere sempre più presente con il suo Io. Fin dalla nascita, entità estranee abitano nel suo corpo e nella sua anima, e questi esseri parassitari lo lasciano soltanto qualche ora prima della morte. La tradizione esoterica e l’Antroposofia chiamano l’insieme di questi esseri elementari il “doppio”. Ora il doppio ha questo di particolare, che possiede un’intelligenza geniale e una volontà la cui potenza è paragonabile a quella delle forze primitive della natura, ma non ha niente tra questi due poli estremi. Questa dualità proviene dal fatto che le entità in questione sono suddivise in due gruppi corrispondenti alla loro “specialità”. Le prime infatti agiscono prima di tutto sull’anima, sulla vita psicologica (corpo astrale), fomentando le passioni e l’egoismo. Lo scopo di questi esseri chiamati luciferici (Lucifero, il tentatore, significa anche il “portatore di luce”, colui che dona la coscienza) è quello di sollevare l’uomo al di sopra di se stesso senza dargliene i mezzi, cosa che porta quest’ultimo a “librarsi”, a staccarsi dalle realtà terrestri. Le altre entità, al contrario, ci tirano verso il basso, verso la materialità meccanica. Queste entità, chiamate arimaniche (presso i Persiani Arimane era il dio delle forze oscure, opposto a Ormuzd, principe del bene e della luce), sono più pericolose delle loro sorelle luciferiche perché agiscono nell’uomo a partire da elementi sepolti ben più profondamente che non i desideri e le passioni. Il loro campo di azione principale è quello delle forze vitali, delle forze della volontà inconsce (corpo eterico). Esse vorrebbero impadronirsi di questo terreno in cui l’uomo non è ancora libero per sottometterlo alle leggi morte della meccanica.
Così il doppio è esso stesso “doppio”, ed è proprio qui il problema, perché il regno dell’uomo e della libertà si esprime veramente solo nel tre! Il doppio è dunque caratterizzato da una polarizzazione estrema tra le forze dell’intelletto e quelle della volontà di potenza, da un lato, e, d’altro lato, dall’assenza totale del polo intermedio, quello della vita dell’anima propriamente detta, quello in cui sbocciano i sentimenti (11).
I nostri due personaggi fanno l’esperienza del doppio che alberga dentro ciascuno di loro: constatano una mancanza, un vuoto nell’anima (polo intermedio) e sono portati in un primo momento a vivere esclusivamente nella testa (polo cosciente del pensiero), quindi nel metabolismo (polo inconscio della volontà). Qualsiasi situazione di incomunicabilità porta alle stesse esperienze del vuoto dell’anima, del freddo dell’intelletto e dello scatenarsi delle forze della volontà. Assumere la lotta all’interno è fare quest’esperienza dello scontro tra i doppi e vincere il proprio doppio. Per meglio comprendere come riuscirci, citeremo un altro esempio tratto anch’ esso dalla “Sonata a Kreutzer”.
“C’eravamo reciprocamente accordati una sorta di tregua e non avevamo alcuna ragione di romperla, tutt’a un tratto la conversazione cadde su un cane: io dicevo che aveva vinto una medaglia a una mostra canina; lei sosteneva che non era una medaglia ma una menzione speciale. Comincia una discussione. Passiamo da un argomento all’altro, ci scagliamo rimproveri: ‘Mah sì, lo so, è sempre lo stesso, tu hai detto …’. ‘No, non l’ ho detto …’. ‘Allora sono io che mento!’. Sentite che sta per scoppiare una di quelle scene spaventose nel corso delle quali avreste voglia di uccidervi o di uccidere lei. Sapete che la scena è imminente, la temete come il fuoco e vorreste dominarvi, ma la collera invade tutto il vostro essere. Lei è in uno stato simile, se non peggiore; travisa a proposito il senso di ogni mia parola; ognuna delle sue è piena di veleno; mi colpisce dove sa di farmi più male. Sempre di più, sempre più in là. Le grido:‘Taci!’, o qualcosa di simile. Lei fugge dalla stanza, corre dai bambini. Cerco di trattenerla per concludere la mia spiegazione e l’afferro per il braccio. Lei finge di sentir male e grida: ‘Bambini, vostro padre mi picchia!’. Io urlo: ‘Non mentire!’. ‘Non è la prima volta!’, quasi strilla. I miei bambini si precipitano verso di lei, lei li rassicura. Io le dico: ‘Non fare la commedia!’. Lei risponde: ‘Per te, tutto è commedia. Saresti capace di uccidere un uomo e di dire che fa finta di essere morto. Adesso t’ho capito. È questo che vuoi!’. ‘Crepa!’, le grido. Ricordo che quelle orribili parole mi terrorizzarono. Non mi sarei mai creduto capace di pronunciare parole così volgari, così tremende, e sono stupefatto che mi siano potute sfuggire” (12).

In questa scena, che si svolge qualche anno dopo la precedente, uno o più gradi sono stati superati. Prima, ciascuno dei due personaggi non riconosceva più l’altro in quelle determinate situazioni. Ora il doppio ha preso tanto potere che colui che parla non riconosce più se stesso. Tutto crolla: l’immagine dell’altro e quella di se stesso. A che cosa aggrapparsi in queste condizioni? Cerchiamo di ricordarci casi analoghi da noi stessi vissuti. Ogni volta abbiamo sentito molto chiaramente: attenzione, le cose si mettono su una china fatale, bisogna fermarsi prima che la cosa non si deteriori del tutto. Generalmente, tuttavia, questa acuta coscienza non serve a niente perché resta confinata nella testa dov’è appunto il regno della separazione, mentre nel resto del nostro organismo il sentimento di angoscia e di frustrazione che prova l’altro si comunica fino al flusso respiratorio e ondate di collera ribollono nelle profondità del metabolismo. Sono là i due ostacoli contro i quali si scontra qualsiasi lavoro sulla situazione. Da un lato, quello che mi fa sentire e presentire la fatalità del processo; dall’altro, l’effetto insidiosamente contagioso di ciò che agita l’altro in modo cosciente o subconscio.
Da una parte, so già come le cose degenereranno, ma non posso far niente, il mio io è come paralizzato. “Conosco questo stato d’animo, è sempre la stessa cosa; tu hai detto … – No, non l’ ho detto … – Allora io mento!” (13). Il motivo del litigio può essere dei più futili – nel nostro caso un concorso canino – e noi percepiamo la sproporzione grottesca tra il motivo irrisorio e l’ampiezza degli effetti. Noi sappiamo anche che non è quello, che la vera ragione del confronto dev’essere da un’altra parte, ma dove? Quel che noi tocchiamo con mano in questi casi è qualcosa in noi che agisce sempre automaticamente: poco importa che cosa gli forniamo come alimento, se ne appropria com’è sua abitudine e ne fa quello che è solito farne. È qualcosa in noi che non siamo noi: questa logica meccanica che può anche girare a vuoto è l’essere del doppio. Riconoscerlo per quello che è quando frappone la sua ombra tra l’altro e me può aiutare a respingerlo, perché è solo il mio Io che può fare questo atto. Certo, io posso riconoscere, sentire il doppio dell’altro con il mio doppio, cosa che mi chiude ancor più nei problemi, ma percepire il mio proprio doppio, questo non può che essere la presa di coscienza realizzata dall’io stesso. L’essere del doppio si nutre in particolare di tutto ciò che non è assunto dall’io, perché è un essere abitudinario. Tutto ciò che può funzionare da solo (automaticamente) ha la stessa natura del suo essere. È la menzogna divenuta realtà oggettiva, la “falsa verità” …
…A questo livello di manifestazione, non posso vincere il doppio se non sviluppando in me la veridicità: io guardo l’altro negli occhi e guardo la verità in faccia. Essere presente con il proprio io dietro i suoi pensieri, le sue parole e le sue azioni è pensare il vero, parlare in modo veritiero, agire in modo veritiero.
Questo rapporto con il vero è molto esigente. La veridicità è “retta”; non può accontentarsi di “mezze verità”, di compromessi, di opinioni generali o di pregiudizi. Essere nel Vero significa ricreare sempre qualcosa di nuovo, intraprendere una nuova azione. Anche una semplice parola, se pronunciata con tutta la profondità del proprio essere, può trasformare il mondo.
La facoltà che bisogna applicare qui è il primo elemento base del cammino occulto di cui abbiamo parlato: la devozione verso la verità. Si guarderà l’altro facendo vivere in se stessi questo impulso di veridicità. Così facendo, ci si potrà dire: “Dietro tutta quest’ombra che sembra essersi impossessata dell’altro vive anche l’Essere Vero che vorrebbe esprimersi, ma che al momento è nascosto. Voglio donarmi a quel Vero, aiutarlo ad attraversare le tenebre e il freddo, ascoltare quello che vuole dirmi dal suo esilio”. Quest’atteggiamento di ascolto nei confronti del vero, questa devozione alla verità, è ciò che permette di cominciare a superare il proprio doppio. Presto, attraverso le immagini di noi stessi che ci rimanda l’altro e quelle che si “congelano” nel nostro intelletto e tutto ciò che oscuramente sale dal nostro organismo, arriviamo ad una prima percezione del nostro doppio.